Il Castello di Granarola

Il Castello di Granarola

Relatore: Prof. Arch. Silvio Van Riel
Correlatore/i: Arch. Iader Carlini
Laureando/i: Ivan Cappellacci, Andrea Rattini
Anno accademico: 1998/1999

Abstract

Premessa
Notevole importanza ebbe nel passato, per il dominio della penisola, il territorio della val Tavollo ove insistevano i castelli di Gabicce, Gradara, Casteldimezzo, Fiorenzuola, Granarola e Monteluro, posto com’era a segnare la demarcazione orografica tra l’Italia centrale e la settentrionale e come tale sede di numerosi distaccamenti militari e di munite postazioni strategiche.
A causa della loro posizione in zona di confine, oggetto di continue e interminabili contese, i sei castelli si sottomettevano alla Chiesa prima e ai Comuni poi, per sfuggire alle ricorrenti vessazioni e alle interminabili lotte che continuamente li coinvolgevano.
Le origini romane degli insediamenti in zona sono documentate da rinvenimenti sepolcrali e iscrizioni a Gradara, Granarola, Tavullia, Colombarone e Monteluro.
La storia della zona è legata alle zuffe tra i vari potentati locali, rappresentanti della Chiesa, Malatesta, Della Rovere, in un continuo cambiamento di “bandiera” e dominii.
L’area attestata sull’asse della val Tavollo è tipica zona di confine, storicamente Marche, geograficamente Romagna, sulle cui pendici furono appunto insediate rocche e luoghi di difesa ancora oggi ben evidenti, individuando così la linea di controllo e di difesa del passo della Siligata costituita da Granarola, con le sue caratteristiche di borgo fortificato, unitamente a Gabicce Monte, Gradara, Tavullia, Monteluro, Casteldimezzo e Fiorenzuola di Focara.
In questo territorio si concentrarono grandi e piccoli, ma significativi, eventi storici: nell’Aprile 1815 Gioacchino Murat, sconfitto in Emilia, ripiegò e a Gradara approntò una linea di difesa, abbandonata dopo tre giorni, nel 1860 le truppe piemontesi transitarono nella zona segnando l’ingrasso delle Marche nel Regno d’Italia; una cruenta battaglia si protrasse per lunghi giorni sulle pendici tra Granarola e Monteluro, nel corso della ritirata delle truppe tedesche nel 1944, con lo sfondamento della “ linea gotica”.
I castelli di Fiorenzuola, Casteldimezzo, Gabicce, Granarola, Gradara e Monteluro sono inoltre ben documentati in sei acquerelli di Mingucci, ma poco delle antiche opere di fortificazione è giunto sino a noi e corre oggi purtroppo il rischio di scomparire per sempre.

Note storiche
Granarola, frazione del comune di Gradara, con 320 abitanti, situata a sud-ovest di Gabicce Mare e leggermente a sud-est di Gradara, è celebre per il suo castello, la sua “deliziosa posizione”, “l’ameno soggiorno” e le “pittoresche vedute” come si legge in una lettera che il pittore G. A. Lazzarini scrisse nel Maggio del 1757 al grande storico pesarese Olivieri.
Granarola è un toponimo con grafia differenziata (Granarnola, Granariolo, Garnarola, Castrum Gravarole, …) che deriva dall’aggettivo latino “granarius” e che significa letteralmente “piccolo granario”. E Granarola fu davvero “cella granaria” in senso attivo e in senso passivo, cioè nel duplice significato di produzione e di conservazione, in grandi torri frumentarie, del preziosissimo dono che spontaneamente offre la terra.
Come precedentemente accennato, il castello di Granarola ha avuto in passato vita intensa e notevole importanza, così come i castelli vicini, nelle vicende storiche della zone di confine tra Marche e Romagna, a cavallo della quale si sono svolte importanti battaglie tra le opposte fazioni e i numerosissimi episodi d’importanza minore che caratterizzarono i continui passaggi di proprietà e signorie, tanto da caratterizzare la zona come di “frontiera”.
In effetti, il colle di Granarola era in ottima posizione strategica e, con Tavullia, Gradara, Casteldimezzo e Fiorenzuola di Focara, costituiva un’importante linea difensiva e di controllo nella zona di confine tra i diversi potentati che si sono succeduti nel dominio.
Il castello, di cui rimangono alcune vestigia, è molto antico: sorto verso la fine del X secolo, fu per secoli strettamente collegato, in modo diretto o indiretto, agli altri tre castelli di Gabicce, Casteldimezzo e Fiorenzuola, al punto che molti storici e geografi ne trattarono come se fosse ubicato sul promontorio di Focara.
Il castello di Granarola fu donato dal papa Gregorio V, con bolla dell’Aprile 998, all’Arcivescovo di Ravenna cui lo confermarono Federico Barbarossa, Ottone III, Federico II, Onorio III e Gregorio IX, rispettivamente del 1181, 1209, 1220, e 1228.
Alla chiesa ravennate lo contese per lungo tempo quella pesarese che ne venne brevemente in possesso nel 1202.
Nel 1271 si sottomise al comune di Rimini, ma una pergamena del 1283 riferisce come “castrum Granariole” venisse occupato dalla S. Sede, dalla quale passò nel 1356 nuovamente alla Chiesa ravennate per concessione di Innocenzo VI. A quest’ultima venne tolto da Malatesta Malatesti che lo restituì alla Chiesa pesarese; nel 1443 subì l’assedio di Sigismondo Malatesti, ma rimase alla chiesa pesarese che solo nel 1464 fu costretta a cederlo a Federico da Montefeltro, che l’occupò “ manu militari”.
Pochi mesi dopo però Papa Nicolò V lo cedette, insieme a Gradara, ad Alessandro Sforza e da allora seguì le sorti di Pesaro.
Il castello, nella posizione in cui si trova, costruito a strapiombo e dotato di mura fortificate, doveva essere certamente di tipo difensivo.
L’evolversi della politica e della teoria della difesa militare ha portato, nel tempo, all’abbandono della funzione strategica e alla trasformazione in tranquillo borgo rurale, ma, conseguentemente alla mancanza di fondi per la manutenzione, anche ad un graduale ma inesorabile abbandono e degrado.
Del borgo fortificato medievale resta pertanto ben poco, se non la ancora invidiabile posizione paesaggistica, assai suggestiva, e la conformazione urbanistica del nucleo storico che, con vie di piccolissime dimensioni, senza gerarchie di importanza, senza piazze di particolare interesse, resta abbastanza conservata.

Lettura compositiva del manufatto
Documenti Il castello di Granarola che è stato più volte rimaneggiato conserva l’impianto architettonico e funzionale originale, anche se un recente intervento ha manomesso le principali strutture orizzontali e i solai lignei sono stati sostituiti con più moderni e “profani” solai con travi tipo Varese.
Del castello sopravvivono inoltre notevoli tratti della cinta muraria, particolarmente nella parte orientale, e l’ingresso, in discreto stato di conservazione, sebbene abbia subito anch’esso evidenti modifiche. Le originali mura di fortificazione di forma circolare, restano comunque solo in corrispondenza del castello (lato Sud-Ovest) e, sul lato di accesso alla porta principale dell’antico borgo (a sud), mentre altrove sono quasi del tutto perse.
Al di fuori della cerchia delle mura si è andato sviluppando un nuovo insediamento con caratteristiche simili, purtroppo, a quelle delle periferie della gran parte delle città medio-piccole italiane: sviluppo caotico, assenza di qualsiasi “disegno” architettonico, proliferazione di edifici più o meno abusivi, con l’utilizzazione di materiali poveri, impropri e senza armonizzazione alcuna con l’ambiente naturale e storico circostante.
Come si osserva in un acquerello di F. Mingucci conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, all’inizio del Seicento una fitta ed ampia selva ricopriva tutto il colle sul quale si levava il castello.
Si tratta, per la verità, di una preziosa testimonianza sull’esistenza intorno ai luoghi fortificati su un ampio spazio di terreno ricoperto da boschi e come tale destinato ad impedire qualsiasi forma di utilizzazione agricola nella zona circostante le mura e il fossato.
L’integrità di quanto restava ancora dell’antica selva di Granarola al tempo del Mingucci era già fortemente pregiudicata nel 1775, visto che l’Olivieri scriveva nelle sue “Memorie di Gradara”: << a Granarola è perduto il nome di questa selva, ma ne restano le vestigia sotto il castello dalla parte della strada maestra sopra i beni miei, e quelli della Chiesa, ma si perderanno presto ancor queste vestigia, perché i bisogni di quella povera Comunità la obbligano di tanto in tanto ad atterrarne qualche parte>>.
Oggi dell’antica difesa naturale non restano che esigue tracce: fino ai piedi delle mura di cinta del borgo i terreni sono coltivati, mentre alla sommità è rimato un fitto bosco, con un notevole sottobosco, ricordo della ormai scomparsa foresta.
Sulla sommità del borgo esiste un percorso pedonale di uso comune, una sorta di strada “condominiale” che, pur appartenendo ai proprietari delle aree prospicienti, è stata ed è usata da tutti. Alla base del contrafforte c’è un altro camminamento, di proprietà privata, che consente la circolazione pedonale e dei mezzi di soccorso su tutto il perimetro.
Al centro del borgo fortificato esisteva probabilmente la piazza come risultante degli edifici a costina costruiti sul borgo esterno, senza una propria precisa connotazione urbanistico-architettonica caratteristica degli insediamenti dell’epoca. Con lo scemare dell’importanza del borgo fortificato, conseguente alle trasformazioni geopolitiche ed urbanistiche dell’epoca rinascimentale, la piazza perse la sua importanza e funzione, fino alla sua scomparsa. Dalla mappa del Catasto Pontificio infine si rileva che nello spazio della piazza era stato costruito un edificio ora demolito, forse dalla guerra. Ora non esiste una vere e propria piazza, ma uno spiazzo, non pavimentato, in parte di proprietà ad uso pubblico ed in parte di proprietà privata, addirittura recintato.
Fil tutto è attualmente lasciato in uno stato di totale e deprecabile abbandono, ma recentemente stanno circolando notizie in merito ad una risistemazione del castello e, più in generale, del borgo e ciò è interessante dato che il complesso presenta caratteristiche architettoniche sufficienti a promuoverne un completo restauro.

Conclusioni
Il processo di degrado cui è andato incontro in pochi decenni il patrimonio edilizio esistente nei territori di confine fra Marche e Romagna è stato accelerato dalla tendenza a soddisfare le esigenze quantitative trascurando i fattori qualitativi.
Alla fine degli anni settanta si manifestò il rifiuto dell’utenza ai modelli tipologici-architettonici sperimentati nel periodo precedente, si cominciò a porre attenzione al problema della qualità e del comfort prendendo coscienza dell’enorme danno prodotto nelle città sia dall’indiscriminato abbattimento di immobili, anche di valore architettonico–ambientale, per sostituirli con altri nuovi ritenuti più efficienti e più redditizi, sia dal degrado causato da un eccessivo immobilismo che bloccava qualsiasi attività di riqualificazione.
Si riscoprono più tardi, i valori ambientali, funzionali e figurativi dei “centri storici” e dei “centri antichi” che, anche se degradati sono pur sempre centri culturali ed economici, si manifesta così, la tendenza al recupero che comprende il rinnovo urbano, il riuso dell’edilizia esistente più o meno fatiscente e delle aree urbane inedificate o male utilizzate.
Con il passare degli anni e l’accrescersi dell’interesse al recupero, si è formata una “cultura del recupero”, per questo il nostro lavoro, teso al consolidamento del castello di Granarola, prende in considerazione l’esigenza di affrontare con la massima consapevolezza ogni intervento, impone uno sforzo di definizione dell’ambito culturale specifico mediante indagini storico-ambientali e rilievi eseguiti con tecniche che consentono di determinare, nel modo più esauriente, le caratteristiche geometriche e strutturali dell’edificio.

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