Il Ponte di Tiberio a Rimini.Ipotesi di consolidamento.

Il Ponte di Tiberio a Rimini.Ipotesi di consolidamento.

Relatore: Prof. Ing. L. Nizzi Grifi
Correlatore/i: Prof. Arch.S. Van Riel
Laureando/i: Stefano Montanari, Marco Tamagnini
Anno accademico: 1987/1988

Abstract

Premessa
Il Ponte di Tiberio e l’Arco di Augusto rappresentano le emergenze storiche di epoca romana più significative.
Essi sono collocati agli estremi del decumano massimo e sono, rispettivamente, l’Arco la conclusione trionfale della Via Flaminia e in Ponte l’inizio della Via Emilia.
La nostra attenzione è ricaduta sul Ponte, visto il carattere strutturale, che si presta a verifiche statiche tradizionali e con l’ausilio di tecnologie elettroniche.
Il Ponte è interessato dal progetto dell’Arch.Viganò “SISTEMA VERDE/ACQUA del Marecchia – unità del Ponte di Tiberio”, che prevede tra l’altro l’abbassamento dell’alveo del Marecchia di circa 3 metri.
Principalmente proprio a questo fatto è da imputare il manifestarsi di alcune sottili cavillature nel rinfranco di una delle pile del Ponte (la seconda a partire dalla destra orografica).
Tali evenienze indussero all’inizio degli anni ’80 a considerare l’opportunità di interventi di consolidamento da porre in atto prima che lo sbancamento fosse portato alla quota prevista dal progetto Viganò.
Tali interventi (4 ne sono stati studiati) progettati dallo studio di geologia del Dott.Forlani sono purtroppo ancora sulla carta, lasciando il Ponte in uno stato tensionale che potrebbe portare ad una fase di cedevolezza dei terreni.
Il nostro studio dopo un dettagliato rilievo al 50 ha posto l’attenzione sulle verifiche che sono state condotte mediante l’utilizzo del Mery,  per quanto riguarda l’arco centrale la semiarcata della seconda volta (contando dal lato Bologna); di Heyman per la sola arcata centrale; e degli Elementi Finiti per il Ponte nella sua complessità.
Abbiamo infine vagliato i progetti di consolidamento del terreno elaborati dal Dott.Forlani facendone una analisi critica.

Sulla nascita
L’interpretazione ufficiale della data di nascita del ponte è del 14 d.C. come data di inizio lavori, sotto l’imperatore Augusto e del 21 d.C. come termine, sotto il dominio di Tiberio: ciò da quanto lascerebbero supporre la due iscrizioni identiche (a parte una E finale in DEDERE) sulle sponde opposte al ponte.
Di questo avviso è, ad esempio, l’ingegnere A. Martinelli, quando nel 1681, chiamato da Papa Innocenzo XI al restauro del ponte ormai pericolante nell’ultima arcata verso Bologna, così si esprime:
“Viene detto Ponte chiamato d’Augusto, perché fu edificato da Ottaviano Augusto figlio adottivo di Giulio Cesare e perché prevenuto dalla morte, non potè terminare Opera tanto insigne, la condusse al Punto fermo di sua perfezione Tiberio Augusto figlio del medesimo. Resta il tutto chiaramente espresso in una lapide fissa dentro una Pariete laterale di detta Porta, dove sono incise le seguenti lettere…”.
Così dice pure lo scritto di L. Nardi:
“Tanto ad una sponda, come all’altra del nostro Ponte, leggesi l’anzidetta iscrizione…ne fece la dedicazione…facilmente si rileva che Augusto prima di morire aveva lasciata l’opera ben avanzata, e che Tiberio operò assai lealmente nel mettervi anche il nome di Augusto”.
Decisamente contrario a questa interpretazione si rivela, invece, nel 1901 l’avvocato G.Fregni, quando nel testo “Delle tre iscrizioni” pone in discussione l’ipotesi che la storiografia precedente aveva evidenziato riguardo alle due scritte del Ponte e a quella dell’Arco d’augusto. Dopo aver con enfasi e ridondanza espresso le sue complesse teorie, egli riassume:
“…che il ponte non è romano, ma alle insegne etrusco, comunque esitava assai prima dei due imperatori Cesare Ottaviano Augusto e Tiberio Cesare: che le due parole deder o dedere del ponte, non vogliono già dire, che i due imperatori Cesare Ottaviano Augusto e Tiberio Cesare, costruirono o fecero costruire il ponte, ma vogliono solo dire che al ponte diedero i parapetti e le sponde – ponti dederund – ed il – quod viae munitae sunt (parole che si trovano sulle medaglie di Augusto) – esse pure applicate al ponte, vogliono dire, che come le vie, quei due imperatori ripararono, arginarono e difesero il ponte. Che la costruzione o le due ali del ponte si debbano porre negli ultimi anni di trono dell’imperatore Cesare Ottaviano Augusto, nel 759 di Roma ad un solo tempo… a7 anni da Cristo…:Tiberio, di lui figlio adottivo in quel tempo non era solo che Cesare e solo socio al potere.”
Fregni continua con la sua tesi affermando che
“basta solo vederlo: anche un profano di cose antiche, si accorge subito, che quelle due ali, a riparo, a sponda, nulla hanno a che fare con gli archi e col disotto del ponte: stile e architettura diversi: i marmi stessi, non sono delle stesse cave, e dello stesso tempo dei due parapetti”.
Le parole di Dione Cassio sulla Via Flaminia e sulle statue poste da Augusto negli archi e nei ponti a Roma e Rimini giustificherebbero tale tesi: egli afferma, infatti, che dette statue furono poste sull’Arco e nel Ponte di Rimini 727 di Roma (cioè 25 anni prima della nascita di Cristo e ben 39 anni prima della data di inizio lavori del ponte). E’ dunque ipotizzabile, al di là della esatta definizione della data di costruzione e in epoca precedente alla data ufficiale –14 d.C.- che esistesse un ponte in condizioni precarie e che la sua ricostruzione rientrasse fra quelle decise in età augustea per i ponti della Via Flaminia.
Il rapporto con questa via romana, messo in luce in opere di inizio secolo, è comunque unicamente questo, in quanto il ponte è all’inizio della Via Emilia mentre, la Via Flaminia termina al lato opposto della città romana, col trionfale Arco di Augusto.
G. Mansuelli afferma in proposito:
“Nessuno ha mai neppure lontanamente dubitato che il ponte non sia stato costruito per la Via Emilia… il fatto che l’Arco d’Augusto si trovi nel punto in cui la Flaminia mette capo alla città è di per sé sintomatico: vi è poi una testimonianza monumentale importantissima, cioè l’esistenza dei miliari presso la Colonnella e al Terzo, distanti esattamente un miglio romano il primo e tre il secondo dall’Arco d’Augusto. Si aggiunga anche che Rimini preesisteva alla costruzione della via, la quale fu compiuta in funzione dell’importantissimo centro, il che esclude di per sé una eventuale prosecuzione al di là del centro medesimo…Un buon tratto della Via Emilia si trova effettivamente in testi antichi chiamato Flaminia, certo per riflesso del nome dato alla provincia che includeva il territorio della Romagna inferiore”.
Il Nardi ci offre anche un’idea suggestiva sull’ipotetico progettista:
“…la robustezza di questo ponte che a fronte di tanti secoli si è sempre mantenuta nel suo primo vigore, la grazia, la venustà, di cui tuttora fa leggiadra pompa, manifestano la somma perizia dell’Architetto, che probabilmente fu Vitruvio, il quale vedemmo essere artefice dell’Arco, e che contemporaneamente forse attendeva ad ambedue questi lavori, o almeno da altri si eseguirono i suoi Disegni”.

Le vicende storiche
Il primo grave danno subito dal ponte, avviene nel VI secolo (probabilmente attorno al 552) quando Narsete generale dell’imperatore Giustiniano, si vede sbarrare il passo dai Goti, che ne tagliarono un’arcata, quella, a giudizio del letterato F:G:Battaglini, verso Bologna.
Detta arcata, in effetti, ricostruita con poca perizia, mostra poi maggior debolezza nei secoli successivi.
Anche alla fine del XVI secolo, essa è danneggiata da una piena storica e successivamente restaurata con i contributi del Comune di Rimini e del Clero.
Nel 1527, secondo un racconto riportato dal Martinelli, Pandolfo Malatesta e suo figlio appiccano il fuoco sotto l’arco contiguo al Borgo San Giuliano, affinchè resti impedito il passo a Lotrecco, generale del re di Francia, ed al suo esercito. Il Martinelli non condivide però questa ipotesi, sia perché
“Pandolfo Malatesta aveva così buona testa, che ben poteva conoscere che la rottura di detto Arco non era bastante a far Argine per trattenere la corrente impetuosa dell’Armi vincitrici di Lotrecco”   sia perché nel suo sopralluogo del 1680, egli trovò   “molti gran sassi del tutto intieri e gli altri, che erano laceri, conservano nelle loro ruine la propria connatural sodezza, il che non sarebbe riuscito, se fossero stati esposti veramente fuoco”.
Il Martinelli, incaricato da Innocenzo XI dopo una interminabile serie di lettere da parte della popolazione riminese che sollecita un intervento di restauro, afferma che
“la causa…principale dalla quale è derivata una così vasta ruina non è stata altro appresso di me, che l’unione di due cause parziali, che sono concorse unitamente a costituirne una totale, cioè il lungo corso degli anni, e il venire ad angolo acuto ferito detto arco del ponte, massime nelle parte, che appoggia al Borgo, dal sirocco in quel paese molto frequente…E se questa ragione non soddisfasse a bastanza l’intelletto de’ più intendenti…dirò che forse ciò fu effetto dell’intimorite, infuriate e perciò sconcertate Genti habitanti in quel tempo in Rimini, che con picconi, pali in ferro, mazze e cose simili tentassero senza regola d’arte di smantellare detto Ponte percotendolo disordinatamente in più, e diverse parti, come dimostra l’ortografia delineatione del medesimo, ma principalmente nell’arco più lacero e che poi fossero raffrenati, o dal supremo impero di Pandolfo, o impediti dall’Armi nemiche, che li soggiogarono, o atterriti dalla difficoltosa impresa…”.
E’ interessante notare quante “ossequiose suppliche”, ”devote preghiere”, “profondissimi inchini”, autorità e liberi cittadini devono provvedere ad inoltrare in Roma, prima che arrivino gli scudi per risarcire il vecchio ponte del suo arco ormai in rovina.
All’aggravarsi della situazione causata dal mancato intervento si sommò il grave terremoto del 14 aprile 1672, per il quale
“…si degnò l’anno passato la Santità di N:Signore di dare licenza alla Comunità di Rimini… d’erogare scudi 1000…in reattazione delle Fabbriche dirute dal Terremoto, per ristoro del Ponte d’Augusto detto di San Giuliano, che in un Arco ultimo minaccia rovina”
secondo le parole dell’Affezionatissimo come fratello” Cardinale Raggio a Papa InnocenzoXI. Dopo quasi 80 anni di richieste (dalla prima lettera del 1602 firmata da una trentina di cittadini riminesi, all’ultima dal Cardinale Raggio, immediatamente precedente ai restauri), Sua Santità provvede a nominare il Martinelli ingegnere restauratore del ponte.

Lettura compositiva del manufatto
“Il Ponte misura 62.60 agli estremi delle arcate opposte, senza contare quindi le testate, interrate in parte. La larghezza massima è di metri 8.65, cornice estrema compresa, e la sede stradale misura nel mezzo metri 4.91…Delle arcate, in numero di 5, la centrale misura metri 10.50 di luce e le altre variano tra i metri 8.70 e metri 8.80”;  le frecce variano dai  metri 5.10 dell’arcata centrale ai metri 4.20 del quinto arco. “Le pile sono sei, testate comprese e hanno uno spessore oscillante tra i metri 4.40 e i metri 4.00 e una larghezza di metri 7.40 circa: notevole il fatto che esse sono oblique rispetto all’asse del ponte con un angolo di 11 gradi circa. L’inclinazione è verso la città. E’ questo un documento importante della sapienza tecnica dei romani e insieme prova che la costruzione fu condotta in tal modo per seguire il filo della corrente del fiume, e per mantenere la strada in rettilineo”
“Dalle fronti delle pile sporgono per due metri i frangiflutto, pur essi lapidei oggi non più visibili perché il letto del torrente si è molto innalzato. In epoca imprecisata, ma abbastanza tarda, al di sopra dei frangiflutto in pietra ne furono costruiti altri in conglomerato”.
In proposito L.Alberti scrive:
“prorae in pilis prodeant adversus vim aquae”:
servivano dunque
“gli sproni per riparare le grandi pile dall’ammassamento di quelle materie che seco menar potesse la corrente del fiume”
“Il Temanza dice che il Palladio nella descrizione di questo ponte non fu molto esatto, perché non mostrò l’inclinazione delle pile, non diede le cornici e gli altri ornamenti come sono e persino la luce degli archi nel Palladio non corrisponde a vero”
Notevole interesse suscita la forma delle fondazioni, sulle quali vanno ad appoggiarsi, rastremati progressivamente verso l’alto, i piloni. Secondo Mansuelli:
“Al di sotto di essi è una piattabanda in blocchi lapidei su cui insiste tutta la costruzione: non già quindi le fondazioni delle singole pile disgiunte l’una dall’altra, ma una fondazione unica e tale da assicurare la stabilità più completa. Questo procedimento è stato reso necessario dalle particolari condizioni del fondale del fiume, soggetto ad alluvioni ed instabile”.

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